Ognuno di noi ha la famiglia che gli è toccata in sorte. Nel bene o nel male. Più o meno grande. Più o meno regolare. Ma che trova sempre le sue ragioni, se non direttamente nel cuore, sicuramente in qualche sportello dell’anagrafe. Poi c’è l’altra famiglia, quella che scegli tu, o che ti sceglie, nel corso della vita: fratelli, sorelle, padri a volte, che incontri sul tuo cammino e che accompagnano i tuoi passi. A volte sostituiscono ciò che ti manca, a volte affiancano, semplicemente, allargano il cerchio. Perché a voler bene non si fa mai danno e l’amore moltiplica l’amore.
Alcune situazioni poi sembrano nate per unire le persone. La fatica e il dolore più di altre. La prima volta l’ho imparato agli Scout, camminando, sudando insieme e dividendosi poi la borraccia, che lì non era una metafora, erano passi, stelle e occhi veri.
Poi me l’ha insegnato l’ospedale. Nei giorni in corsia la tua famiglia si trasforma, e le persone della tua stanza diventa, nel bene e nel male, dannatamente intime. Credo che si badi troppo poco a questi aspetti della degenza, sembrano futili, forse, io credo che ci siano continue destabilizzazioni rispetto alle abitudini quotidiane nel regime di ricovero, destabilizzazioni che avvengono in un momento di grande fragilità. E che lasciano un segno profondo in chi le vive. Sia in rapporto a te stesso che in rapporto agli altri. Io ad esempio odio dipendere da qualcuno, odio chiedere favori, farmi aiutare. Ho passato moltissimi giorni nel corso della mia degenza, e poi nelle settimane successive, in cui dipendevo dagli altri anche per i gesti più banali.
Chi mi conosce sa anche che non posso essere definita una persona riservata, parlo tranquillamente delle cose che mi riguardano, allo stesso tempo scelgo in maniera molto oculata chi far entrare davvero nella mia intimità. Invece in ospedale…
Arrivano le infermiere a lavarti, escono i parenti e rimangono le tue compagne di stanze. Arrivano i medici, escono la mamma o il marito e rimangono gli altri pazienti. Nei momenti più impegnativi non sei neanche solo, sei con persone che fino a qualche giorno prima non sapevi chi fossero e che probabilmente non incontrerai più. Un processo di condivisione forzato che ti cambia nel profondo.
Considero l’emblema di questa esperienza il mio secondo ricovero (10 giorni) nel 2012. Letto centrale, alla mia sinistra Mariella, signora sulla sessantina operata di protesi all’anca, alla mia destra Lucia, 16 anni, intervento alla schiena simile al mio di due anni prima. Quasi 3 generazioni. Giorno dopo giorno siamo diventate tre compagne di avventura speciali nella nostra infinità diversità. E con noi le persone che ci assistevano. Arrivava la mattina il marito di Mariella con le brioches per tutti e la frutta del suo magazzino. E quando sei lì, dopo una notte insonne, in cui magari ai pianto, una brioche a sorpresa ti sembra un sogno. Come ti sembra un sogno non essere sola a soffrire e a gioire. Avere vicino qualcuno che capisce.
Forse per questo quando qualche mese fa ho saputo che Lucia si doveva rioperare ho pensato che non potevo non andarla a trovare. In questi anni ci siamo sempre tenute in contatto, nonostante la distanza, grazie a Facebook, che può essere un sacco di cose oltre ad uno strumento diabolico in cui l’amicizia muore. Neanche a dirlo è stata un’emozione immensa vedere Lucia ed entrare in un ospedale specializzato in chirurgia ortopedica. Cuore a mille e gambe che tremavano.
Quando sono entrata Lucia era a letto, dando le spalle alla porta, che parlava con il terapista che l’aveva portata a fare i primi passi, parlava dei muscoli del suo collo, che erano impazziti per la nuova postura e la paralizzavano. Io ascoltavo in silenzio e trattenendo le lacrime pensavo al mio ileo psoas della gamba destra che dopo l’intervento per settimane era andato in corto circuito e mi aveva fatto letteralmente piangere di dolore. Pensavo che avrei voluto fare qualcosa, prendermi ora che sto bene, un po’ del suo dolore.
Poi, le ho messo una mano sulla spalla e lei girandosi ha acceso i suoi occhioni bellissimi e per un attimo il dolore al collo era scomparso. Poco dopo è arrivata la mamma Rosanna, una roccia di donna con mille problemi di salute suoi che segue la figlia in questo percorso ospedaliero da anni. E mi rivedevo come madre e pensavo: ancora mille interventi a me piuttosto che ai miei figli…
C’è qualcosa di magico in questi legami, profondi ed effimeri. Qualcosa che è difficile spiegare e che forse nasce davvero grazie al dolore e a quella che semplicemente si potrebbe chiamare sfortuna. Beh… io credo che quando il cuore va a mille e gli occhi si illuminano non ci sia sfortuna che regga la sfida.
Lucia ora sta facendo riabilitazione in un ospedale specializzato, è una guerriera, con tutta la vita davanti e spero davvero che la prossima volta l’andrò a trovare in Puglia!
Cara Giovanna sei una donna speciale!
Cara Vittoria,
grazie… mi commuovo. Del primo commento del blog (che ancora è in sordina…) e di quello che dici. Ho sentito il bisogno di mettere nero su bianco un po’ di cose, forse solo perché mi scoppiavano dentro. 🙂 Vedremo ciò che accadrà! Un abbraccio grande!
carissima è stato un piacere leggerti…hai sempre scritto bene fin dai banchi delle medie. mi sono ritrovata in tante cose ..dallo scautismo alla scoliosi…sfide e dolori! che questa avventura ti porti armonia e gioia. Un abbraccio dalla tua vecchia insegnante
Grazie Prof! Sa bene che lei è una delle persone che porto nel cuore, insieme alla passione per i numeri che non mi ha mai abbandonato, anche se nel tempo è esplosa quella per la scrittura. Un caro abbraccio!