“Ciò che si vede è negli occhi di chi guarda.”
Questo per dire che nelle righe che seguono non penso affatto di parlare del Challenge di Rimini in quanto evento, ben organizzato o caratterizzato da una pioggia incessante, importante tappa del triathlon europeo o appuntamento ormai storico dello sport in riviera. Vorrei condividere attimi e sguardi che ho vissuto, perché una gara da qualunque parte tu la guardi, non può lasciarti indifferente.
Lo scorso week-end l’ho passato a Rimini dunque: triathlon, pioggia ed emozioni.
Non ero sola, ero prima di tutto con il mio compagno Gabriele che con me ha colto la sfida di guardare una gara come volontario (e non come atleta) sacrificando sicuramente una o due mezze giornate di allenamento, il riposo dopo una settimana intensa di lavoro e il meritato week-end casalingo.
Ero poi con migliaia di persone che erano lì per svariati motivi: gareggiare, sostenere gli amici, lavorare, etc… Ne conoscevo pochissime di queste persone, la maggior parte erano sconosciuti che avrei incontrato senza neanche presentarmi. Altre erano il motivo per cui ero lì, amici accomunati dalla stessa passione. Ma chi c’era davvero? O meglio cosa hanno visto i miei occhi di volontaria inesperta e di triatleta ingenua?

Ok… c’era Filip (Ospaly) ha vinto, si è preso il titolo. Di lui ricordo il silenzio attonito del pubblico quando ha tagliato il traguardo… e lo scroscio di applausi quando invece è arrivato l’argento Molinari, che correva in casa. Ho pensato se in quel momento per il primo fosse di più la gioia del risultato o il rammarico per la freddezza del pubblico. E viceversa per il secondo… Ho anche pensato che le gioie spesso sono confuse, che siamo noi che dobbiamo prenderle e innalzarle sopra tutto. Come una medaglia, di qualunque colore sia.
Kaisa (Lehton, Finlandia) invece è arrivata prima tra le donne. Di lei ricordo che mi ha dato la sensazione di non essere di questo pianeta, lei era arrivata da sola… le altre chissà. Per fortuna le altre poi sono arrivate, e c’era Sara (Dossena) e tanti esempi di donne incredibili.

C’era Lorenzo: 17 anni, un corpo indeciso se essere gracile o atletico su cui è ben assestato uno sguardo presente e attento. L’ho visto lavorare con piglio deciso, parlare inglese con gli atleti, godere nel fare bene. E’ una cosa rara oggi a quella età, poi per caso ho conosciuto Vittoria, la madre, che con me ha condiviso mezza giornata di lavoro al deposito borse, e il padre di cui non ricordo il nome, ma quel sorriso obliquo mentre parlava del figlio, che nelle madri è sempre scontato, nei padri no, è inutile. Loro sono veterani del Challenge e del triathlon, vengono giù da Modena per dare una mano, lavoratori instancabili. Una famiglia nella grande famiglia. Belli!
C’era, ovunque, Alice: lei è figlia d’arte, ha quel ruolo di infamia e lode che è essere “la figlia di”, in questo caso degli organizzatori Alessandro e Romina. E’ una bimbetta vispa e l’ho vista fare di tutto in quei giorni. Scrivere col pennarello il numero sui polpacci degli atleti, dare medaglie, ma soprattutto sabato l’ho vista gareggiare insieme a tanti altri bambini.
Pioveva forte. Tra le scene all’arrivo dei piccoli campioni, una: la mamma si avvicina alla figlia seduta per terra bagnata e stravolta dalla fatica e le porge un ombrello, dicendo “Tienilo”. Mi sembrava come dotare Superman di un impermeabile… Non sapevo se riderle in faccia, a quella mamma , che non conoscevo o abbracciarla per la tenerezza e la gracilità che dimostrava di fronte ad una figlia di ferro.
Ah… A questi bimbi ho ritirato i microchip, siccome sono mamma anche io, invece di chiedergli ogni volta di toglierselo da soli mi chinavo e li slacciavo io dalle caviglie. Cosa mi ha colpito? La quantità dei grazie che ho ricevuto. Perché non è vero che i bambini sono tutti uguali, e neanche gli sport.

C’erano Olivier, Simone, Christian, Manuele, Alessio. Sono atleti speciali, sono paratleti. Insieme a tutti gli altri che hanno gareggiato oltre che al Challenge anche il sabato per il Campionato Italiano di Paratriathlon e che andrebbero nominati uno ad uno. Non ci sono parole per descrivere ciò che fanno… Da una parte fanno ciò che fa ognuno di noi, si allenano e fanno le gare. Dall’altra sono persone che hanno scelto di non avere scuse. A me vien da pensare che a causa della vita difficile che vivono sicuramente ogni giorno, dovrebbero sentirsi a posto e già medagliati. Invece no… nuotano con un braccio o addirittura senza braccia, si fanno tutto un triathlon senza gambe, che significa che nuoti utilizzando solo le braccia, vai in bici sulla tua handbike (a braccia), e poi inizi a correre con la carrozzina (e ancora braccia).
Più li conosco e più mi sembrano incredibilmente eroi, e sorprendentemente umani, perché in questa cosa di mettersi in gioco, con tutti i propri difetti fisici, nel mettersi e togliersi la protesi, o nel correre mostrando tutta la propria sconcertante diversità, ci sia anche il coraggio di stare di fronte all’ipotesi di rabbia che il destino ti ha messo davanti. E di farne qualcosa di altro e prezioso.
E anche in questo caso sono i gesti ad avermi lasciato senza parole. Ancora un’istantanea. Al traguardo ho allungato meccanicamente una bottiglietta d’acqua ad un Finisher (era il mio compito) e mentre lui la prendeva disinvolto, io ho realizzato che non aveva la mano con cui la stava prendendo. Quel che ho provato in quel momento non riesco a descriverlo.

C’era Annalisa, al suo primo Mezzo Ironman (come tanti), c’era Annalisa che fino a qualche tempo fa non sapeva nuotare o quasi, c’era Annalisa che lavora a ritmi forsennati e si allena, come molti, ad orari impensabili. C’era con la sua paura, la sua determinazione e i suoi occhi che ridono. C’era con la tua testa che l’ha portata al traguardo. E io, credo, che maggiore sia la fatica, maggiore sia il valore. E in lei ho visto sia l’una che l’altra. E poi la gioia, tra il traguardo e l’abbraccio di Juri, compagno di vita e di sport.
C’era Andrea (Pizzamiglio), un concreto sognatore, di quelli che partono dai sogni e ne fanno progetti. Che da grande vuole salvare il pianeta e la sua fettina di mondo la sta già salvando. Ha il piglio dello scompigliato scienziato pazzo instillato dentro il corpo aitante di uno sportivo. Il suo sogno è di trasformare l’energia che producono gli atleti in energia utilizzabile. Per me è una figata!
Mentre si organizza per questa missione, studia altri progetti tutti rigorosamente eco compatibili. A Rimini è venuto per raccogliere le borracce e farne medaglie. Come tutte le cose grandi è una cosa semplice. Basta un estrusore (cosa sia io l’ho imparato lì… trattasi di aggeggio che trasforma gli oggetti di plastica in bobine di plastica riutilizzabili) e una stampante 3D che prende la plastica e ne fa ciò che vuoi. Spero che legga perché volevo dirgli che io ho distribuito circa 2000 bottigliette d’acqua, troviamo una soluzione anche per quelle il prossimo anno? 🙂 MA soprattutto troviamo qualcuno che gli dia una mano?
C’era Mustafa e la sua grande famiglia. Decine di ragazzi di colore incapucciati nelle loro mantelline colorate che per 3 giorni hanno spostato transenne, diretto il traffico, allestito e disallestito tutto. Ma non perché fossero manovalanza, anzi, ho avuto l’impressione che alcuni di loro fossero gli unici a sapere esattamente come cosa si dovesse fare. E ne ho poi avuto conferma. Senza Leon, Modu o Alì il Challenge non sarebbe stato possibile. Ho trovato questa cosa incredibile, una storia da raccontare, vorrei avere le parole, ma fatico a trovarle nell’equilibrio sociale a cui certe storie ti costringono. Ma è una storia bella, e per ora basta.
C’era Daniele sulla sua moto, Romina alla regia e Alessandro con radiolina costantemente alla bocca, e spesso il bimbo in braccio. Loro tre, come da tanti anni a questa parte, hanno organizzato tutto. E immagino che sia ormai routine… ma quando ha iniziato a piovere e a tirar vento nei giorni precedenti al Challenge mi immaginavo i loro pensieri e i piani B che si andavano creando nelle loro menti… E poi in quei due giorni frenetici vedevo i loro sorrisi per tutti, nonostante, pensavo, non poteva essere andato tutto secondo i piani… Ho capito che certe cose si fanno per passione, non credo che ci sia un interesse che regga tutta quella fatica, né i soldi, né la politica, né la gloria… le persone speciali rendono speciale il loro pezzettino di mondo. Questo ho pensato!
C’erano anche 2 personaggi che il triathlon lo sanno raccontare, anche a me, che poco ne capisco, e io amo ancora più i racconti delle gare, lo ammetto. C’era Daddo, ci mancherebbe!, in spirito e parola. E c’era Antonio Ruzzo, meglio la famiglia Ruzzo, hanno gareggiato tutti: Mamma Ruzzo lo sprint, i bimbi il duathlon, Papà Ruzzo il Challenge. Me li immaginavo in questa sorta di vacanza sportiva, scesi dalla grigia lombardia per trovare un’acqua “che Dio la manda”, arrabattarsi tra la fatica e la gioia, e le mille questioni logistiche del caso (bici, mute, “Guarda chi c’è, lo devo salutare”, cambi per i ragazzi, snack, “Aiuto… il mare è grosso”, body, fazzoletti, “mi scappa la pipì”, etc…etc… etc…). E in tutto questo continuavo a vedere uscire i suoi post sul blog. Le cose sono due: o l’esperienza e la professionalità velocizzano a dismisura i tempi con cui tu puoi mettere in fila 1000 parole di senso compiuto, ma, nel caso specifico ci deve essere anche un’abilità speciale nel farlo mentre la moglie, non so, sta sbirciando una vetrina, i bimbi dormono, non riesci a dormire per la paura della gara, oppure… Ruzzo non esiste. Come Shakespeare!
E poi c’ero io, certamente, emozionata come una bambina, davanti alla prima gara che vedevo da quando ho deciso di fare triathlon. Ho osservato gli atleti che si preparavano la mattina presto, concentrati e intimoriti dalle condizioni atmosferiche. In zona cambio ho guardato con attenzione tutti i gesti delle ragazze che si cambiavano, ascoltato a fatica i loro racconti di onde e boe invisibili, poi ho ammirato le espressioni di chi partiva, ma soprattutto ho cercato di fissarmi negli occhi lo sguardo di chi tagliava il traguardo: felice commosso fiero. Indipendentemente dal tempo impiegato. Non ho potuto che pensare… un giorno quello sguardo deve essere il mio.
Ciao! Mi sono commossa leggendo questo tuo post! Bello intenso semplice eppure ricco denso e vibrante di emozioni che anche io da spettatrice del mio primo mezzo Iron man ho provato. Seguo il mio ragazzo che da un annetto si cimenta in questo sport e mi sto innamorando di questo mondo, della forza di chi lo anima e dei valori che veicola, della semplicità con cui la ‘gente normale’ puó accostarsi ai ‘campioni'(ce li vediamo calciatori milionari a conversare amabilmente prima di una partita con i tifosi? No anzi sono super concentrati, mega cuffie alle orecchie a cercare una concentrazione che manco dovessero salvare il pianeta), vederseli a fianco,parlarci e confrontarsi. Non credo di essere portata per questo sport,né per lo sport in generale, ma vedere le staffette ricongiungersi prima del tappetto rosso e tagliare insieme il traguardo mi ha fatto venire la voglia di far parte di qualcosa del genere, in cui ognuno fa la sua parte per concorrere ad un bene comune e condiviso!
Grazie per le tue parole!
Grazie Irene! Anche io mi sono avvicinata al triathlon seguendo il mio compagno. E’ uno sport speciale! Per chi lo pratica e per chi partecipa da “tifoso”. 🙂
bellissimo articolo e la famiglia Ruzzo ringrazia!
Grazie!
Speriamo di conoscerci in una delle prossime occasioni. Anche noi, tra gare, parole e bimbi!
Mai stato a Rimini.
Ti consiglio di andare! 🙂