Sono cresciuta in Romagna, una terra in cui almeno una bici c’è in ogni garage e la domenica quando ero piccola gli uomini uscivano mentre le donne si mettevano in cucina a preparare il pranzo. La terra del Pirata e del sangiovese in cui bici e piadina sono due facce della stessa medaglia, la Vita con la V maiuscola. Fatica e piacere!
Una terra in cui ci si appassiona per statuto, in cui si bloccano le strade che portano al mare per le gare e se c’era il giro d’Italia era festa. In casa mia non ci sono mai stati grandi sportivi o appassionati, ma quest’aria l’ho respirata anche io. E la bici, quella di chi corre, per me è stata sempre qualcosa di sovrannaturale. Sarà che mio zio rimase in coma per settimane per una caduta, sarà che un mio caro amico ha perso il padre sulla strada durante un’uscita tra amici. Sarà che quel 14 febbraio a togliersi la vita non era stata una persona normale, ma un supereroe, di quelli che fanno sognare e sono immortali. E l’eco di quella storia noi in Romagna la sentiamo ancora.
Sono sempre stata spettatrice, però, di tutto questo, ricordo gli adulti le prime domeniche di mare (che lì arrivano presto) raccolti al bagno per vedere la tivù e seguire il Giro o la Nove colli… nella memoria ho dei fotogrammi inconsapevoli. La schiena di Pantani che fuggiva, oppure i primi sulle gambe, con quella magrezza potente che li fa una cosa sola con la bici quando oscilla in perfetta sintonia con le loro spinte, quasi fossero tutt’uno, l’uomo e il suo mezzo…
Come dicevo spettatrice incurante… Poi qualcosa è cambiato, io ho iniziato a pedalare, timidamente, senza nessuna pretesa, soprattutto però ho iniziato a pedale su una bici speciale (una Specialized. A me? Infinitamente troppo, lo so!) e come sempre accade in tutti i campi, misurarsi con le cose più grandi di te eleva per forza i tuoi pensieri e il tuo spirito.
Così quest’anno per me il Giro d’Italia ha avuto un sapore speciale. Speciale perché non c’era più solamente ammirazione incondizionata, ma c’era quell’osservazione attenta di chi vuole capire, anche se non capirà. Perché vedere pedalare quelli lì è come assistere ad una lectio magistralis in latino, trovarsi ad una cena di lavoro con i top manager di una multinazionale, o guardarsi i 200 stile libero alle Olimpiadi. Non solo avverti l’immensità e la grandezza ma riconosci l’esempio. E senti che tutto il tuo limite infinito ha un senso perché quel gesto così imperfetto e piccolo in te, riesce ad essere così perfetto e grande altrove.
C’è un’altra ragione però per cui quest’anno è stata un’edizione speciale del Giro d’Italia. Sulla schiena di quei ciclisti, che scarpinavano in fuga c’era un simbolo, che anche io porto addosso ad ogni mia uscita in bici da qualche tempo a questa parte. E io, che sono una romantica sognatrice molto più che una ciclista (seppur dilettante) vedo in quel simbolo, quella esse a metà tra un fulmine e uno schizzo a matita, la responsabilità di un sogno e di una grandezza condivisa.
Perché una grande azienda è tale perché sa per prima buttare il cuore oltre l’ostacolo. E lasciate stare i calcoli e i conti. Quelli li devono fare quadrare tutti. È il modo che cambia. Una grande azienda è tale perché la cura che mette nel portare un mezzo alla perfezione necessaria a conquistare un intero podio e la stessa con cui pensa che il mio casco da donna deve avere il posto per la mia coda di cavallo. O che ha costruito un telaio, il mio (Ruby per i precisi) che è in grado di ammortizzare la strada e di fare pedalare serena anche me, con la medesima attenzione e precisione con cui ha concepito il Tarmac designandolo ad altri supremi destini. Una grande azienda pensa in grande e pensa a tutti. “Your ride you rules” appunto.
Poi è ovvio che ci sono momenti, atleti ed episodi, ma quando ieri in un post ho letto “Tre campioni, una sola bicicletta, sarà un caso?” ho sentito il desiderio di rispondere. Non è un caso… sarà talento, fatica e destino. Non certo un caso!
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