Il 14 giugno c’è stato l’Ironman70.3 di Pescara, non è più cronaca, forse storia, ormai è passato, ormai quei matti “bodizzati” sono tornati alle loro vite, raccontano l’impresa agli amici, buttano un occhio alla medaglia appesa da qualche parte in casa, lucidano nel cuore il pensiero della vittoria.
Perché ogni arrivo nel triathlon è una vittoria ed è prima di tutto di chi compie quell’ultimo passo sulla linea del traguardo, dopo le bracciate infinite in mare e le pedalate contro la salita e il vento. Per me oggi un Ironman è solo un sogno, lo sarà fino a quando non saprò se la mia schiena può sostenere tutti quei chilometri di corsa, poi diventerà un obiettivo. O forse rimarrà sempre e solo l’occasione per guardare quella luce negli occhi degli altri, emozionarmi, preoccuparmi, sorridere e piangere con loro.
Il 14 giugno ero a Pescara perché il mio compagno, Gabriele, era iscritto alla gara. C’ero anche perché come alcuni di voi sanno “il mio sogno si chiama triathlon” e queste occasioni sono preziose per imparare tanti aspetti fondamentali di questo sport e per sentire altri cuori che battono come il tuo. Visto che il programma prevedeva di arrivare a Pescara sabato avevo preso con me anche la mia muta, pensando che il mio battesimo in mare sarebbe stato sotto una buona stella lì, all’ombra della “Mdot”, in quel mare in cui si sarebbero sfidati grandi uomini della strada e quotidiani campioni di questa pazza disciplina.
Come nei sogni e nei ricordi, di questa due giorni mi sono rimasti dentro 2 videoclip che si confondono e si fondono con le emozioni che porto ancora sulla pelle.
Sabato 13
La zona cambio brulica di gente quando arriviamo. È molto caldo. Ritiriamo il pacco gara, mi guardo intorno, c’è allegria mista a concentrazione, aleggia la sensazione che questa sia una grande occasione. C’è musica che pompa dalle casse, la voce esperta e instancabilmente squillante dello speaker e centinaia di persone indaffarate. Sono contenta di aver detto a Gabriele lo scorso anno: “Nel 2015 devi fare l’Ironam!”, in realtà sono certa che lui neanche se lo ricordi e non abbia per nulla tenuto in nota la mia richiesta, in fondo all’epoca ero più affascinata dal merchandising dell’evento che dall’evento in sé, sono cambiate tante cose da allora, ma sono felice di essere qui. Anzi di più.
Una parte di gara è come se fosse già iniziata, bisogna fare il check in della bici e preparare le sacche per i due cambi. Pensare al tempo, a come gestire la lunghissima zona di transizione, il triathlon è fatto anche di scelte e vedo Gabriele concentrato mentre ripete i gesti per ricordare gli oggetti. Esco dall’acqua tolgo la muta, metto le scarpe, trovo casco, occhiali e pettorale sulla bici, metto la muta, cuffia e occhialini nella sacca, torno dalla seconda frazione, metto la bici, tolgo il casco, indosso le scarpette da run, metto quelle da bici nella sacca…
Una volta compiute le operazioni di rito c’è una specie di vuoto, un attimo di smarrimento. Io spero che Gabriele si sia dimenticato il proposito di provare la muta, sono già le sei di sera, abbiamo fatto un lungo viaggio da Reggio a Pescara, sono sveglia da dodici impegnative ore, sono stanca. Non faccio in tempo a realizzarlo che… “Andiamo in spiaggia, devi provare la muta”. Ok… andiamo. Ci fermiamo su una panchina per indossarla. Daddo dal microfono urla incitamenti ai bimbi che stanno gareggiando, intorno ci sono tante persone, più o meno indaffarate, tutti mi sembrano al loro posto, io mi sento in quello sbagliato. Cerco di ripetermi i consigli su come indossare la muta letti sull’utile blog dell’amico Massimo Botelli e i consigli dei vari amici. Pochi minuti dopo sono di fronte al mare.
“L’unica persona che mi abbia davvero insegnato qualcosa, un vecchio che si chiamava Darrell, diceva sempre che ci sono tre tipi di uomini: quelli che vivono davanti al mare, quelli che si spingono dentro il mare, e quelli che dal mare riescono a tornare, vivi. E diceva: vedrai la sorpresa quando scoprirai quali sono i più felici.”
Oceano Mare, Alessandro Baricco
Sono davanti al mare. Non so da che parte cominciare, dovrebbe essere semplice, entro in acqua e nuoto. Invece mi sento come il primo giorno di scuola, mi guardo intorno, in acqua c’è qualche atleta in vista della competizione di domani, ci sono i bimbi che stanno facendo la loro gara, qualche bagnante, in lontananza gli scogli. Sono come paralizzata.
Ad un certo punto Gabriele entra in acqua e, anche se non mi fa nessun cenno, so che devo seguirlo. E così faccio. Qualche passo, la sensazione di freddo ai piedi e quella di isolamento della muta sopra le caviglie. Per la prima volta non avrò freddo entrando in mare, questo mi piace. Poi inizio a nuotare verso gli scogli.
Mi sento persa, capisco che la corrente mi porta verso sinistra ma mi sento incapace di gestirla, faccio poche bracciate e mi rialzo riuscendo a stare in equilibrio, cerco Gabriele che nel frattempo nuota vicino a me e mi tiene d’occhio. “Devi guardare dove vai, ripunta gli scogli e cerca di andar dritto, non puoi nuotare come in piscina” Già… Torno giù e provo a tenere una traiettoria lineare con molta fatica, la mia postura mi porterebbe sempre a nuotare storto, in vasca mi autoregolo ma qui mi sembra impossibile, poi quell’onda leggera che continua a spostarmi. Faccio fatica, tanta, il respiro si fa più affannoso e la muta non mi permette di prendere fiato. Mi rialzo e sono finalmente vicina agli scogli, è andata meglio rispetto a prima ma il respiro è affannato, prendo fiato qualche minuto poi mi giro verso la riva e torno a nuotare prendendo come riferimento un ombrellone. Cerco di guardare l’obiettivo ogni tre o quattro bracciate, ma ogni volta che lo sguardo si sposta in avanti la mia incapacità di inarcare la schiena mi affonda le gambe e dopo è sempre come ripartire, sento la fatica crescere sempre di più, mi sento incapace di coordinare movimenti che in piscina ormai mi appartenevano, sento la muta che mi trattiene le braccia, il petto soffocare sotto il suo peso, nuoto finché riesco, poi sento di dovermi alzare, appoggiare i piedi sulla sabbia. Ma appena mi metto in piedi sento la testa girare, le gambe piegarsi e il cielo diventare nero per secondi che sembrano interminabili. Gabri a due passi mi sorregge, mi apre la muta per bagnarmi di acqua fredda e in qualche minuto sono di nuovo io. Sono senza parole, con la sensazione di avere perso il controllo e con l’idea di essermi messa in un impresa più grande di me. Arrivata a riva mi tolgo la muta in silenzio.
Domenica 14
È caldissimo, più del giorno prima. La gara inizia a mezzogiorno. La zona cambio è aperta fino alle 11 per gli ultimi ritocchi alla bici. Quando arriviamo la transition area è in fermento, gli atleti sono meno rilassati del giorno precedente, qualcuno scherza ma la concentrazione è già massima. È importante che tutto sia al posto giusto, è fondamentale, un errore nei cambi o nell’integrazione pazientemente attaccata alla bici, potrebbe compromettere l’esito della gara. Abbiamo scelto di venire presto a sistemare tutto e di tornare in camera poi per stare al fresco fino alla partenza. La percezione che il caldo sarà un fattore fondamentale da gestire è già chiara.
Verso le 11.30 siamo di nuovo giù. Iniziano a comparire le prime mute indossate, qualcuno è in mare a rinfrescarsi, altri nella fontana. Il termometro della farmacia segna 32 gradi. I pro partono alle 12, Gabriele partirà alle 12.40 con gli M45. Sono molto agitata, sarà stata la storia della muta, sarà che quando in gara c’è una persona a cui tieni è sempre difficile rimanere calmi, sarà per questa musica, fatta apposta per far schizzare a palla l’adrenalina. Rimaniamo in po’ in acqua mentre i primi partono, è indispensabile tenere al fresco il corpo il più possibile, poi alle 12,30 Gabri si allontana e va verso i cancelli. Ci scambiamo un bacio e uno sguardo, lui sembra sempre tranquillo, io ho paura e credo si veda.
In realtà si è preparato con attenzione, non tanto perché è un allenatore, ma perché ha fatto tesoro del precedente e primo” mezzo” (Elbaman70.3 2014) certamente più duro di questo e portato a casa nonostante un infortunio. Ogni gara insegna, soprattutto quelle che non vanno esattamente secondo i piani.
Da una parte è tutto sotto controllo, dall’altra mi sembra che ci siano mille incognite. Mi metto ad aspettarlo ai bordi della lunghissima transition area che porta dal mare alla zona cambio. Uscirà dall’acqua in circa 40 minuti, io mi metto per tempo lungo le transenne e intanto osservo gli altri concorrenti che escono, le persone che come me attendono. Fa molto caldo, mi metto in costume, sento il sole che scotta sulle mie spalle. Mi ha sempre affascinato questa cosa di osservare le mamme e i bambini alle gare di triathlon. Tutti aspettiamo il nostro eroe, con fiducia e ansia insieme. 38 minuti e vedo spuntare Gabri, sguardo concentrato e tutto sommato tranquillo, non mi vede neanche e passa oltre, probabilmente sta già visualizzando i gesti da compiere prima di iniziare la lunga pedalata.
Tento di andarlo a vedere alla partenza della bici, ma la zona cambio è infinita e quando arrivo alla sua postazione è già partito. Va bene così, d’altronde quando è in gara ha quella concentrazione selettiva, l’impressione è che non mi veda mai. Devo passare 3 ore. Ieri avevo pensato di andare in un negozio di design fighissimo che avevo visto, di scrivere qualcosa, di fare foto. Oggi non riesco a far nulla se non a pensare alla gara. Comunque devo mangiare, compro della frutta, prendo un caffè per andare in bagno, passo alla macchina per lasciare alcune cose. Mancano ancora 2 ore abbondanti all’arrivo previsto dalla seconda frazione. Decido di andare verso la spiaggia, dopo aver osservato, attraverso le alte barriere di ferro, gli arrivi e le partenze in zona cambio, i primi atleti, i professionisti, stanno per iniziare a correre. Penso di comprarmi un gelato, ma lo stomaco è chiuso, cerco almeno di bere perché il caldo è davvero insistente e non accenna a mollare. Sento di continuo le sirene delle ambulanze, è una cosa che odio durante le gare. Mi posiziono alla fine del circuito della corsa e ammiro i primi concorrenti impegnati nell’ultima frazione. La corsa dei pro è sempre disarmante per me: loro corrono fieri e sicuri, quasi spavaldi, veloci, solo dopo arriveranno gli altri, quelli che fanno fatica, che ad ogni passo spesso sembrano voler mollare. Penso a Gabriele e a tutti i chilometri che si è fatto in bicicletta negli ultimi mesi, devo star tranquilla in fondo, era sempre sulla bici nelle ultime settimane, 60, 100, 80 chilometri alla volta. Tanti combinati, non può avere problemi. Ad un certo punto non resisto e vado all’arrivo della frazione di bici, sono in anticipo di più di mezz’ora ma penso che mi farà bene osservare gli atleti che scendono dalla bici, ho così tanto da imparare. Sono sotto ad un sole a picco, non c’è modo di stare all’ombra, qui tira un vento fortissimo, ad un certo punto una raffica più forte delle altre lancia le transenne contro gli atleti che stanno arrivando. Per fortuna solo tanta paura, ma il cuore va a mille. Le persone che arrivano hanno le facce stravolte, chi più che meno, ma da qui capisci che deve essere stata dura, il vento il caldo, la salita. Aspetto e aspetto, mi gira la testa, bevo. 3 ore: ci dovremmo quasi essere. 3.10 arriva. Questa volta mi vede, mi lancia giusto un’occhiata ma mi sembra in forma. Mi sconvolge solo una cosa, il body nero della Galileo (la sua società) è completamente bianco dal sudore.
Ok, ci siamo, è fatta, penso. Corro in macchina a prendere le cose che possono essere utili all’arrivo, asciugamano e cambio, poi torno verso la spiaggia, immagino che nel frattempo Gabriele farà il primo giro, ma ce ne sono altri 3 e dal punto che ho scelto lo vedrò passare sia all’andata che al ritorno. Nel frattempo ho spento il cellulare perché il caldo ha mandato in tilt la batteria e voglio tenere una foto per il mio finisher. Mi posiziono sul lungomare a pochi passi dalla svolta del traguardo, lo vedrò passare per tutti i giri rimanenti poi all’ultimo giro attraverserò la strada e lo aspetterò sulla finish line. Guardo gli atleti che passano cercando il volto che attendo, vedo i loro sguardi stremati, i passi affaticati. Qualcuno è tutto sommato a posto, qualcun’altro sembra davvero provato sopra ogni limite. Passano 5, 10 minuti. La musica si confonde con i nomi dei finisher urlati dallo speaker. Riaccendo il cellulare, per fare una foto se la batteria me lo permetterà e per sicurezza. Non si sa mai. 15, 20 minuti… dovrebbe essere qui. I tempi della corsa erano 1.30 1.40. Arriverà, anche all’Elba durante la frazione di corsa ha avuto degli inconvenienti e per alcuni tratti ha dovuto camminare. Devo solo aspettare… Strano però. C’è qualcosa che non va, non ci voglio neanche pensare, non può succedere nulla, Giò stai serena, questo week-end ti agiti troppo, cazzo ancora l’ambulanza, no non è possibile, sta ripassando il padre che gareggia con la bimba nella carrozzina, non è possibile, qualcosa non torna… Driin, Driin, Driin. Il telefono trema nella tasca, 331……, Pronto! “Ciao, sono io, mi sono sentito male” Per un secondo si ferma ogni pensiero. La telefonata che non si vorrebbe mai ricevere, al di là del momento, della gravità, della situazione. Poi è seguito un momento di panico, io che mi sento la regina del problem solving non riuscivo a reagire con lucidità per raggiungerlo lì dove mi aveva indicato, non potevo richiamarlo perché quel numero era di un poliziotto, mentre correvo mi saliva un’ansia ingestibile che si confondeva con la tranquillità di sapere che stava bene e che non c’era più attesa con cui convivere.
Il videoclip si chiude con il pianto a dirotto che ho fatto abbracciandolo sul marciapiede mentre il 118 vigilava sulla sua ripresa. Un misto di paura, sollievo, rabbia.
Poi in dissolvenza i gesti silenziosi del ritorno, i titoli di coda di questa giornata, il recupero della bici, le grida attutite e lontane dei finisher, le madaglie e le magliette azzurre degli altri. La musica che non era più quella forte pompata dalle casse, ma il violino di un clochard con la sua nenia malinconica. Faceva ancora caldo. E c’erano ancora tante cose da imparare.
Di questo mio Ironman di Pescara ricorderò per sempre il caldo, il mare e la prova dei sogni. Trovate qui quello di Gabriele.
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