Di solito non scrivo di cronaca, lo sapete, ma questa volta è diverso: l’omicidio di Sara Di Pietrantonio mi ha profondamente colpito. Non tanto per l’efferatezza del crimine (si può togliere la vita in maniera meno che efferata?) ma per ciò che questo episodio ha risvegliato in me. Come donna, come compagna ed ex compagna, come cittadina. Ma anche come sportiva, ogni donna che fa sport ha provato la fragilità di essere sola durante gli allenamenti, la paura di essere seguita, la coscienza che per quanto si possa essere forti un uomo lo è sempre più di te…
Ho bisogno di condividere alcuni pensieri e due episodi che mi girano in testa da qualche giorno. E se non si tratta di triathlon o malattia mi perdonerete.
Sono passate due macchine e non hanno risposto alla richiesta di aiuto.
Qualche anno fa, 3 o forse 4. Sono nella mia cucina a Cesena, non ricordo esattamente l’ora ma sto rassettando in cucina, sono sola perché i bimbi sono dal padre o forse a scuola. Ma sono sola, per fortuna. C’è una grande porta finestra a fianco al lavello, dà sul terrazzo e c’è una bella vista sul cortile dei vicini. Una graziosa e piccola villa curata, due cani, piante e vasi che decorano con grande cura e una speciale simmetria il giardino. Il quartiere è immerso nel verde, residenziale. Silenzio, addirittura si avvertono gli uccellini cantare. Ad un certo punto sento fermarsi bruscamente una macchina di fronte alla villetta. Dentro una coppia che litiga pesantemente. Capisco dall’auto che si tratta della figlia dei vicini, 20 anni o poco più, e del suo ragazzo. In quella famiglia hanno l’urlo facile, spesso li ho sentiti gridare, sbattere porte e andare via in malo modo.
La lite continua in maniera insistente e i toni sembrano accendersi sempre più. Ad un certo punto lui esce dalla macchina e va verso lo sportello di lei. Io sono alla finestra, guardo la scena in piedi come in un film, tra l’incomprensione e lo smarrimento. Impietrita. Lui apre a forza lo sportello dell’auto, che evidentemente lei tratteneva, l’afferra e la trascina letteralmente fino al cancello di casa. Intendo che lei striscia a terra e si dimena e lui l’afferra dove riesce, anche per i capelli, per farla scendere e attraversare la strada. Poi risale in macchina e corre via, mentre lei, rialzatasi e raggiunta di nuovo la macchina sferra pugni sul cruscotto prima e sul finestrino poi.
Io rimango lì, con il cuore a mille, le gambe che tremano. Mi appoggio nella prima sedia che trovo in cucina e per molto tempo non riesco a fare nulla. Né a parlare, né a rialzarmi e continuare la giornata. Non ho chiamato nessuno. Ci ho pensato? Sì, ma non l’ho fatto. Per quel senso di discrezione, credo, che spesso ci guida. Una discrezione che è troppo simile all’omertà a volte. Non è successo nulla di irreparabile. Poteva succedere.
Una donna sola di notte al distributore.
Qualche settimana fa. Di ritorno da Milano. Sabato sera, già notte. Pioggia e vento. Mi accorgo di essere in riserva e visto che anche il giorno seguente devo tornare su a Milano decido di fermarmi a fare gasolio. Noto subito un camion fermo lungo la strada. Lo supero, metto la freccia a sinistra e mi fermo a fare ciò che devo. Mentre cerco di avere la meglio sulla colonnina, tra codice del bancomat e pioggia che arriva di traverso sotto la pensilina, vedo in lontananza che il camion è entrato nella piazzola. Ecco… lo sapevo. Mi dico. Vedo scendere il camionista da lontano e vedo che si avvicina a me. Cerco di mettere ordine ai pensieri che si dividono precisamente in due: poveruomo si è perso, attenta Giò a tutto quello che fai sei in pericolo. L’uomo è basso, parecchio trasandato, gli manca qualche dente. D’istinto provo una grande tenerezza, ma non posso non notare la somiglianza, che realizzo consciamente solo ora, con lo zio omicida di Sarah Misseri, Sarah pure lei…
“Sono di Napoli, devo andare alla Mutti ma mi sono perso. So che dovevo uscire qui dall’autostrada, ma…” In mano ha un foglio scritto a matita, c’è il nome di una via. Capisco che non ha il navigatore. Io ho il cellulare in macchina, le chiavi strette in mano. Cerco di fare quello che vorrei fare, gli do una mano… gli indico la direzione, ma lo vedo smarrito. Ancora due pensieri distinti: Prendi il navigatore in macchina, non aprire la macchina potrebbe essere pericoloso.
Lui mi guarda… è leggermente più basso di me, che ho anche i tacchi, ma piuttosto robusto. Tenerezza e paura. Insieme. “Se le facessi vedere la strada dal mio navigatore? L’aiuterebbe?” I suoi occhi si illuminano. Paura e tenerezza. Ancora.
Mollo la presa sul telecomando della macchina, il cuore a mille, apro lo sportello, il portafoglio buttato sul sedile, per prendere il cellulare gli devo dare le spalle e chinarmi. Ho paura e non vorrei. Esco con il cellulare in mano, mi avvicino. La via che aveva scritto con una grafia incerta e antica sul foglio è sbagliata, allora cerco su Safari e trovo l’indirizzo esatto della Mutti. Poi avvio il navigatore e compare la strada corretta sullo schermo. 20 minuti da lì. “Allora ecco la strada, si segni i paesi da cui deve passare, la Mutti è una grande azienda vedrà che più avanti troverà qualche indicazione.”
La sua espressione è cambiata. Riesce solo a dire “Signorina, mi dispiace che il bar sia chiuso. Le vorrei offrire almeno il caffè”. “Si figuri, mi ha fatto piacere aiutarla. Buon rientro!” Non creda avverta il leggero tremore della mia voce.
Era un povero camionista napoletano che aveva viaggiato tutto il giorno, ma poteva essere un assassino. Potevo essere un uomo ed essere tranquilla nell’aiutarlo. Invece l’ho fatto da donna col cuore in gola.
Non mi piace parlare di femminicidio, non credo che le donne siano meglio degli uomini. Tutt’altro. Sono oggettivamente più vulnerabili. Volevo condividere questi due episodi banali, che saranno capitati a tanti, per dire che nulla è semplice come sembra. Che dentro di noi ci sono ragioni e radici che determinano le scelte di ogni giorno. E spesso queste scelte non sono le migliori. Ma pensiamoci, pensiamo alle nostre scelte, perché spesso un altro modo c’è e può essere un modo che salva una vita.
(Le foto di questo articolo sono di Matteo Galacci)
A mio parere è solo una questione di senso civico e rispetto per il prossimo nonché di coerenza rispetto al fatto che ognuno di noi in una situazione traumatica o di pericolo spera di trovare un aiuto anche nel passante occasionale. È un dovere intervenire per dare una mano ad una persona in difficoltà figuriamoci poi se è una donna un minore o un anziano. O se proprio non ci consideriamo in grado di poter fare qualcosa nella specifica situazione almeno fare tutto quello che ci è possibile per allertare chi è in grado di intervenire. È un dovere non una scelta. A me personalmente è successo di intervenire anche in situazioni in cui non fosse palesemente esplicito il bisogno. Non me ne sono mai pentito.
Grazie per questa tua condivisione. È proprio vero che a volte, le scelte che facciamo in certi ‘brevi attimi’, non sempre sono le migliori, per paura o per altro..