Quando ero bambina durante i viaggi in macchina o quando passeggiavo di sera per strada guardavo sempre le finestre illuminate. Mi piaceva fantasticare di mamme che preparavano la cena, coppie innamorate, bambini arrabbiati e storie da raccontare. Lo facevo sempre, lo faccio ancora.
Quando vado per strada e incrocio qualcuno per me diventa immediatamente una storia. Guardo i gesti, rubo qualche parola e immagino. Una moglie a casa che stira triste, una figlia a fare un esame, un destino inverso o un sogno pronto per essere realizzato. Credo che sia per questo che amo i treni e amo infinitamente viaggiare. Incontrare storie. E forse per questo odio a volte il cellulare, che ci ha tolto lo sguardo all’orizzonte dei nostri passi, che ci costringe continuamente a chinarlo. Lo faccio io per prima e ogni volta sento di perdere un racconto. E mi maledico.
Ho sempre pensato che ogni storia valga la pena di essere raccontata e ho sempre amato quelle apparentemente banali, quelle in cui il giorno segue incurante il sonno di una città di provincia o dove Parigi si racconta in vicoli e buste della spesa. Se sono tristi, a dire il vero, mi piacciono di più. La mia favola preferita era La Sirenetta, quella originale, non quella edulcorata in stile Disneyano. Quella in cui lei alla fine muore dissolta nel vento. Perché le storie vere sono tristi, almeno a tratti, c’è poco da fare. Anche se a volte non sembra. Amo le storie vere insomma. Mia figlia, divoratrice di libri a 11 anni, ha una passione smodata per il Fantasy…anche se taccio, io proprio non la capisco. Per dire.
Un po’ di tempo fa ho scelto di raccontare qui la mia storia. Una storia come tante. Quando mi chiedono perché l’ho fatto, dico sempre che non ho mai pensato che fosse una storia importante, ma nel tempo mi sono accorta che poteva essere una storia utile. Ci vuole un po’ di impegno ad amare la propria storia, soprattutto se è fatta di traiettorie oblique e battute d’arresto. Di dolore sordo e gioie che gridano. Di momenti che si attorcigliano e quotidiana fatica. Una storia come tante, appunto. Ho pensato di raccontare qui il fatto che ho iniziato a fare triathlon e sono invalida. Che ho voluto considerare il mio 46percento di invalidità il mio bicchiere mezzo pieno. Che ho passato giorni che sembravano infiniti stesa a letto e poi mi sono ritrovata a fare gare, io che mi facevo venire il mal di pancia per non fare i giochi della gioventù a scuola. Io che sono mamma e sono terzo genitore. Io che ho cambiato vita e pelle mille tante volte. E tante ancora la cambierò. Io. Ancora io. Perché raccontare di sé?
Ho cercato di rispondere tante volte a questa domanda che nessuno mi ha mai fatto. Questo blog è il mio diario, in fondo, ma è pubblico, è come una finestra da cui gli altri possono vedermi mentre preparo la cena, piango in silenzio per i miei figli, abbraccio forte la mia famiglia ricomposta, sogno la vita da reporter che non ho avuto il coraggio di inseguire, o mi alleno con gli occhi che brillano di fatica. Scrivere mi fa star bene e allo stesso tempo rompe gli schemi dei miei pensieri, perché a dirle le cose non sono mai esattamente come sono. A scriverle invece… Non si sfumano, non si dimenticano, non si cancellano. E fanno bene e fanno male.
Ogni storia vale la pena di essere raccontata. Io ho scelto la mia ora, perché sono passata dal rischio di vivere in carrozzina a fare triathlon, ma forse questo è solo un pretesto. Da una vita sogno di scrivere, una vita intera. Sogno di scrivere quelle storie che trovavo nelle finestre illuminate. Sono partita da qua, sono partita da me. Bimba arrabbiata, madre che piange, donna che suda.
Perché credo che solo da sé stessi si possa partire. E a volte fa bene, a volte fa male.
[La foto della copertina e quella del pub sono di Matteo Galacci.]
Lascia un commento