È una teoria di domande quella che mi ritrovo in valigia al ritorno da Istanbul. Come le luci sui lampadari della moschea, come i dolcetti tipici, a frotte di zucchero sugli scaffali o i pescatori improbabili notte e giorno sul Bosforo, a riempire il tempo con riti di sopravvivenza e allegria su di un ponte affollato, tra le urla dei gabbiani e lo strazio delle loro vite troppo difficili. Domande che ogni viaggio porta con sé, ma che oggi sono più pungenti e insistenti. Una moltitudine di case e finestre affastellate sui colli a cui hanno rubato tutti gli alberi. Cemento antico e sghembo su cui svettano momenti di instabile modernità e insistenti minareti.
Istanbul: terra di attentati.
Ero ad Istanbul a capodanno, quando un terrorista maledetto è entrato in un locale e in nome di dio ha iniziato a sparare. “Siete matti ad andare ad Istanbul” ci avevano detto. Il mio solido fatalismo per la prima volta ha vacillato nel giorno precedente la partenza: ho pensato ai miei figli, alla mia assicurazione sulla vita come misera coperta di Linus… ho avuto paura per un attimo. Un attimo solo però, perché la paura è la loro vittoria e io non voglio dar ragione al mondo dei violenti, dei pazzi, di chi spara e spaventa.
Una cultura di pace, partire mi è sembrato anche questo, fare una sorta di opposizione al terrore. Un piccolo atto di resistenza. Il primo dell’anno però, quando ho preso il cellulare in mano appena sveglia, è stato come uno schiaffo. C’erano messaggi di ogni tipo: famigliari, amici, conoscenti. So cosa si prova a stare dall’altra parte, la mia migliore amica è stata coinvolta in uno degli attentati di Bruxelles e ricordo il panico finché non l’ho sentita… Ho parlato con persone del luogo nei giorni successivi, non ci sarà un momento migliore per andare lì, almeno non a breve. Istanbul è davvero una porta, lo si percepisce passeggiando, osservando le case, i monumenti. Istanbul è un luogo che la storia ha battezzato come luogo di passaggio, snodo di religioni, ponte tra un Oriente e un Occidente che mai come oggi si ostinano in direzione ostinata e contraria. Istanbul incastonata tra Europa e Asia. La sua meraviglia e la sua dannazione.
Le donne di Istanbul.
Sono le donne a porti la grande domanda mentre cammini per le strade di Istanbul. Le donne, custodi della vita e delle tradizioni. Per mano delle donne passa il futuro e il destino di ogni uomo, la storia di un Paese. Qui le donne incarnano le contraddizioni di questa città, che mi è sembrata una sintesi estrema e paradossale della nostra società. A volte le vedi coperte, vestite di nero, in piccoli gruppi famigliari, lontane dagli uomini. Oppure vestite in modo vistoso e pacchiano, come adolescenti che ancora non si sanno districare tra i potenti mezzi della femminilità. E tra queste trovi poi le studentesse, che sembrano materializzatesi da una qualche università europea, o le ricche musulmane che ostentano i vessilli dell’islam ma lo fanno con un’eleganza e una supponenza fastidiosa.
Un effetto straniante, una mancanza di riferimenti che potrebbe essere stupenda e che invece smarrisce, perché non sembra quasi mai riconoscimento di una cultura ma la volontà di portare una bandiera, scelta e insieme sconosciuta. E poi la storia di Paola, ragazza cristiana appena arrivata qua a cui un’amica ha sussurrato “Quando esci per strada, tieni il crocefisso sotto la maglia. È meglio” Il destino di essere minoranza è lo stesso destino ovunque.
Il nuovo ponte tra le culture: il selfie.
Questo mi ha sconcertato: in una città in cui ci sono culture differenti, livelli sociali imparagonabili, persone di ogni tipo, in una metropoli incastonata tra due continenti, con i poveracci, i super ricchi, i russi e gli occidentali, dove le donne camminano coperte, gli uomini stanno tra uomini, i bambini sembrano non esistere, in questa incredibile città che è Istanbul c’è una cosa che sembrava accomunare le religioni e i gruppi sociali: il selfie.
Tutti a farsi selfie… tutti a brandire smartphone e selfiestick quasi fossero un lasciapassare per la modernità, uno scudo che protegge dagli altri, che li tiene anche al proprio posto in qualche modo. Uniti dalla tecnologia, e non capisco se sia un bene o un male. Anche se il selfie non riesce a non sembrarmi una sorta di specchio di ultima generazione. Un modo per guardare sempre più se stessi e sempre meno il mondo.
Ad Istanbul, per risparmiare, ero senza traffico dati nel mio cellulare, mi collegavo la sera in albergo. Punto. Ho riscoperto il gusto estremo dell’osservare, di riempire le pause come facevo una volta, guardando il mondo, come fosse un libro coi suoi personaggi e le domande che infinite ti pone. E oggi sto provando a raccontarlo, senza dirette Facebook o immagini a 360 gradi. Solo emozioni filtrate dagli occhi prima e dal cuore mentre scrivo.
Anche io ho fatto qualche selfie, ci mancherebbe, ma a volte cercare di capire se siamo noi che utilizziamo la modernità o è lei che utilizza noi fa bene. Anzi, una delle scene che ricorderò con più affetto è avvenuta all’atterraggio ad Istanbul, volevo far sapere che nonostante gli inconvenienti in partenza era andato tutto ok. Mi sono posizionata per fare un selfie in cui si vedesse che eravamo all’aeroporto. L’autista che ci era venuto a prendere capendo al volo cosa stavamo per fare si è messo tra noi brandendo il cartello con il nostro nome. Così all’improvviso. Noi con la nostro foto lo avevamo in qualche modo escluso e lui invece ha creato un contatto, sbucando alle nostre spalle. Ecco… noi avevamo usato la tecnologia per dividere, lui invece ne ha fatto un modo perché due occidentali appena atterrati ad Istanbul e un turco che parlava inglese a fatica si facessero una sana risata. Insieme.
Istanbul e i cani.
Al primo cagnone che vedi, steso in mezzo all’aiuola, tra la gente che cammina tranquillamente, rimani spiazzato. Al secondo cerchi di osservarlo bene e, costatando che è certamente in salute, inizi a pensare che forse ti è sfuggito qualcosa, che forse sei tu quella che non è al corrente dei fatti. Poi ti accorgi di non aver visto praticamente nessun cane al guinzaglio. Quando infine ne vedi uno che passa la notte tranquillo nell’atrio della vetrina di una gioielleria ne hai la certezza. I cani a Istanbul sono di Istanbul.
Perché qui sembra la cosa più normale del mondo che cani di taglia medio grande siano liberi e tranquilli per strada. Sono i cani di Istanbul, appunto: il Comune li sterilizza e ne controlla la salute e i cittadini li adottano collettivamente. Non chiamateli randagi perché di randagio non hanno nulla, anzi sembrano più dei poltroni cani domestici, spesso un po’ in sovrappeso e con la calma serafica di chi è abituato a star tra la gente, non deve conquistare il pranzo e non deve difendere né se stesso né il padrone. Insomma a leggerla così una specie di paradiso, anche se poi ovviamente il paradiso non è. Ma è un altro punto di domanda sulle nostre paure rispetto ai cani, sul nostro umanizzarli o odiarli. Sui canili straripanti e i veterinari che costano un occhio. Sui collari che tengono al lazo cani ringhianti e sulla bellezza di una carezza donata senza timore passando per strada. O la dolcezza di un ragazzo che distribuisce croccantini sul marciapiede rientrando dal lavoro.
Il richiamo del Muezzin e il dono del Corano.
Stavo dormendo profondamente quando un urlo ha squarciato il cielo. Non un urlo vero e proprio, in verità, l’ho capito dopo, era una nenia amplificata e incomprensibile. Ci ho messo un attimo per ricordare che ero in un paese musulmano e che la vista dall’albergo sulla moschea blu, significava anche questo. Il primo gennaio 2017 il Muezzin chiamava i fedeli alla prima preghiera del mattino e dell’anno, mentre sul cellulare leggevo i messaggi di chi mi voleva bene e sapeva che per mano di un fedele a quello stesso dio, io potevo non esserci più. Il Muezzin annunciava l’alba del 2017.
Quando le parole non si capiscono fanno paura, soprattutto se sono urlate, soprattutto se muovono le folle. Poche ore dopo, in netto ritardo sulla chiamata, com’è d’obbligo per i turisti (che alla preghiera non possono assistere) mi toglievo le scarpe per entrare nella Moschea. Una sensazione di calma e insieme il disagio, taciuto ma innegabile, di essere in casa del nemico. Le grate per la preghiera delle donne, la vastità degli spazi, i lampadari bassi e l’intimità con russi e coreani (unici azzardati turisti) in calzini come noi e come noi col naso all’insù. C’era un cartello che invitava a chiedere notizie sull’Islam agli addetti, ma non abbiamo osato.
Qualche giorno dopo, invece, in un’altra moschea ci si è avvicinato Mohamed, un ragazzo che un inglese perfetto ci ha detto che era a nostra disposizione per parlare dell’Islam e ha iniziato a rispondere alle nostre domande, intercalando con pillole di islamismo. Alla fine ci ha lasciato una copia del Corano, dicendo che ogni musulmano ha grande rispetto di Gesù e invitandoci ad assistere alla preghiera che stava per iniziare. Un’altra domanda da portare in valigia: Perché l’ha fatto? Evangelizzazione o intercultura? Persuasione o conoscenza? Non lo so… ma so che qualche ora dopo ho preso a leggere il Corano, come altre volte in passato, mentre sorseggiavo un caffè turco mangiando zuccherosi baklava. E dentro avevo sempre la stessa sensazione, quella che mi dà il vecchio testamento, di un libro fuori dal tempo e dallo spazio. Sacro sì, ma lontano. Lontano, come le radici dalle gemme. Perché per fiorire serve il sole e ci vuole aria. E per andarli a cercare bisogna uscire dalla terra. E muoversi liberi nel cielo. E lì mi è salita la tristezza e una consapevolezza. La tristezza di un mondo che non trova pace, la consapevolezza che l’ignoranza produce mostri, come la religione quando è solo fede senza cultura.
Sono tornata da Istanbul con tante domande e un po’ di speranza in meno nell’uomo. Perché siamo stati in grado di fare opere maestose, di farle convivere, di portare cultura nel mondo… le spezie, l’oro, i tesori… e ora siamo qua, spaccati in due senza capire che farne di ciò che eravamo. E nel frattempo lo usiamo contro gli altri. Come cani randagi, in branchi famelici con lo stesso intento di proteggere i nostri simili. Ma se i cani hanno da mangiare sono mansueti. Me l’ha detto Istanbul.
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