Adoro le storie che raccontano i vecchi, le adoro perché i nostri vecchi hanno visto un mondo che a noi è precluso. Un mondo in cui c’era poco e in questo poco c’era la povertà, la guerra, la fatica, ma anche la sfida, il coraggio e la possibilità. Adoro i loro occhi, circondati dalle rughe e annebbiati dagli anni, che si illuminano di racconti incredibili in cui la vita quotidiana si rivela un’infinita avventura.
Molti anni fa, quando ero poco più che una ragazzina, per caso a casa di mia nonna vidi le sue pagelle delle elementari: era bravissima! Io che subisco da sempre il fascino dell’eccellenza e delle cose antiche iniziai a far domande.
“I miei genitori volevano mandarmi a scuola fino alla terza elementare, avevano bisogno che li aiutassi nei campi, ma venne qui il provveditore in persona a chiedere che mi facessero fare almeno altri due anni”.
Così fu, mia nonna arrivò alla quinta elementare, poi andò a lavorare. E quella che sarebbe potuta diventare un’appassionata insegnante o un’eccellente impiegata divenne una dei tanti mezzadri delle colline sopra a Fano. Ma nonostante questo limite impostole pesantemente dalla vita, riuscì a coltivare anche tra i campi e la stalla la sua curiosità. Leggeva di continuo, ascoltava la radio o quando poteva guardava la tv dai vicini, così quando si accorse che due dei suoi cinque figli maschi avevano ereditato la sua dote, li mandò in seminario perché potessero studiare. Uno dei due era mio padre. Ho sempre sentito forte l’eredità di questa donna, il suo testimone silente. Lei che non aveva potuto studiare, io che sono nata in un mondo che neanche sembra figlio del suo e in cui la possibilità dello studio è cosa scontata.
Oggi quando vedo mia figlia appassionata lettrice e instancabile studentessa, ripenso a questo filo rosso che ci lega, generazione dopo generazione, e che fa di ognuno di noi una storia che non muore. Mi piace pensare che nonna Rosa farà l’università insieme a Margherita.
Ricordo che quando l’andavo a trovare adoravo parlare con lei. Io, fervente e impegnata studentessa del liceo prima e dell’università poi, lei con la quinta elementare. Adoravo parlare con lei perché era informata su tutto e aveva quella profondità che possiedono solo le persone che hanno attraversato la storia, che hanno visto la guerra, che hanno avuto fame e freddo davvero. E nonostante questo sanno quanto conta sapere, conoscere, andare oltre.
Ma non c’è solo il filo rosso del sangue… c’è anche un legame che unisce ognuno di noi al di là della famiglia. Che ci unisce in quanto persone e cittadini.
Qualche tempo fa facendo zapping sono stata attratta dai racconti di un nonno. Era stato partigiano e raccontava di quando ancora bambino lo utilizzassero come vedetta in bicicletta. Raccontava di quanta paura avesse e di quanto coraggio avesse dovuto tirar fuori per inforcare la bici e, in barba ai tedeschi, attraversare il paese. Poi, rivolto al suo sconosciuto interlocutore al di là della telecamera, ha aggiunto con una calma che mi ha scolpito queste parole nel cervello:
“Sa qual è il problema? Che i nostri ragazzi non hanno più bisogno di avere coraggio!”
Vorrei chiuderla qua, in fondo non c’è nulla da aggiungere. E invece penso a tutte le volte che tremo perché i miei bambini sono di fronte ad una difficoltà. Una verifica, una mancata convocazione alla partita, le analisi del sangue. La tentazione è di chiedere per loro una vita senza ostacoli, e invece dovrei saperlo, sono proprio gli ostacoli che superiamo a renderci migliori. Le cose che non abbiamo a tirarci fuori risorse insperate. Avevo scritto anche una cosa sulla resilienza nei bambini, ma quanto è difficile mettere in pratica certe cose.
I nostri figli non soffriranno mai la fame, non dovranno mai patire il freddo o rischiare la vita durante la guerra come è capitato ai nostri nonni, ma hanno il diritto di diventare uomini e donne di coraggio. E il dovere di aiutarli ce l’abbiamo noi!
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