A ben pensarci nulla di ciò che sono oggi sarebbe esistito senza di lei. La mia fedele compagna di viaggio, quella che mi regalarono per la promozione in prima liceo e che fin da subito fu la mia inseparabile alleata. Era la fine degli anni 80, era la Romagna, quella della Nove Colli prima e di Pantani poi, quella che da sempre annovera salite e sudore. Io ero solo una ragazzina che amava la libertà. Muoversi per la città da sola. Desideravo semplicemente una bici nuova per sostituire l’olandesina lilla di seconda mano con cui comunque mi scarrozzavo impavida da anni.
Di quel periodo ricordo i pranzi domenicali dalla nonna Norma e gli zii che arrivavano ogni volta in extremis perché erano fuori a pedalare. Il giretto a Sarsina, una sorta di rito settimanale, l’incipit del pranzo domenicale fatto di cappelletti in brodo tirati al mattarello, coniglio del contadino ripassato con le patate in padella e zuppa inglese, che gli inglesi non sanno neanche cosa sia, ma sulle tavole della domenica in Romagna non mancava mai.
Io, però, ero semplicemente una ragazzina che aveva bisogno di una city bike per andare a scuola, in parrocchia, in biblioteca… Una ragazzina senza nessuna velleità sportiva, anzi da sempre cicciotella, imbranata e parecchio studiosa. A casa mia lo sport era visto con diffidenza e poi, diciamolo, erano altri tempi, e io ero una con la testa a posto, che in parole povere significava che dove mi mettevano stavo.
Quindi mi regalarono una city bike e la mia vita, nell’unico modo possibile allora, divenne una vita sui pedali. Non c’era caldo o pioggia che tenesse, non c’era distanza o sudore. Io ovunque andavo in bici. Ebbi anche un brutto incidente sulla quella bici: avevo 17 anni e una macchina mi investì mentre, finito di studiare, stavo andando in palestra. Due mesi con entrambe le braccia ingessate. L’estate seguente ero tra le strade della Loira sui pedali con il mio gruppo Scout. Ricordo il terrore che mi assaliva quando prendevo velocità, ricordo la fatica, il disagio, ricordo soprattutto la voglia di tornare a vivere di quel vento tra i capelli, di quella libertà. Semplice e impagabile.
Sembra passata una vita da allora, anzi no, è davvero passata una vita. Oggi ho più di 40 anni, 2 figli, vivo a Reggio Emilia e ho acquisito una disabilità che rende la mia schiena un blocco di cemento. Eppure…
Eppure quattro anni fa… un nuovo incantesimo. Era il settembre del 2014, ero su una spiaggia dell’Isola d’Elba per la partenza di una gara di triathlon, la notte stava lasciando posto ad un sole infuocato, mi passavano a fianco gli sguardi concentrati e agitati degli atleti, in zona cambio come silenti destrieri erano pronte centinaia di bici.
In quel momento la ragazzina che amava muoversi su due ruote, che grazie alla bici aveva rivendicato la sua autonomia e la sua libertà, prese il sopravvento sulla mamma invalida e spettatrice. “Anche io voglio tagliare un traguardo. Anche io voglio preparare un triathlon”
Un sogno che significava ricominciare da zero. Come era successo dopo l’intervento alla schiena del 2008. Quando dall’immobilità assoluta di un letto d’ospedale avevo dovuto ricominciare a camminare, a vestirmi da sola, a salire e scendere le scale e poi a vivere.
E allora da zero ho ricominciato. Ho chiesto con la voce tremante di imbarazzo al mio compagno Gabriele Torcianti di allenarmi, gli ho chiesto se secondo lui sarei potuto salire su una bici da corsa, se avrei potuto sostenere la mole di allenamenti indispensabili per poter passare sotto al traguardo di un triathlon. Lui ha risposto con la sintesi proverbiale che lo distingue: “Non lo possiamo sapere. Non esiste letteratura su un caso come il tuo. Iniziamo.”
Non avevo nulla, tranne 40 cm di titanio nella schiena fissati con una ventina di viti e forse, da qualche parte, lo spirito indomito di quella ragazzina con la testa a posto e una gran voglia di libertà. Avevo subito un secondo intervento nel 2012 e stavo ricominciando la mia nuova vita a Reggio Emilia coi miei figli. Era un percorso a fari spenti nella notte.
“Iniziare l’allenamento sembrava impossibile e salvifico, come tutte le cose che fanno la differenza nella vita.”
Non dimenticherò mai la prima volta che salii sulla mia Ruby, una bici che Specialized aveva pensato per le lunghe distanze ma che con qualche accorgimento sembrava perfetta per me, che avevo una schiena delicata e rigida. Il clock delle mie prime scarpe sui pedali, quel gesto che aveva qualcosa di esotico e lontano. Ricordo la paura delle prime uscite. La sensazione di essere nuda e vulnerabile, una sensazione che allenamento dopo allenamento lasciò il posto ad un senso nuovo di autonomia, di forza, di gratitudine e libertà. Questa volta non ero libera dai miei genitori, ero libera da quella parte di me che si sentiva ammalata e destinata per sempre a stare a guardare.
Sono passati un po’ di anni da quel giorno, è passato il traguardo del mio primo triathlon a Riccione nel 2015 e poi altre piccole e sofferte soddisfazioni. Ormai per me la bici è quella cosa lì: quella per cui ci si veste con cura, quasi a compiere un gesto propiziatorio, quella che ti chiede sempre di superarti, quella che se salti un allenamento senti che ti manca qualcosa.
“La bici sono le salite e i paesaggi mozzafiato che ti ritrovi ad ammirare, la polvere che ti rimane addosso d’estate e il fango quando piove.”
Ogni tanto mi sento ancora fragile, ogni tanto quando le auto mi sfiorano e muoio di paura penso di mollare, che non posso rischiare la vita così. Perché se io cado, questo lo so, ho molte probabilità di riportare danni irreparabili. Ma c’è qualcosa che mi tiene qua, ancorata sui pedali delle mia Ruby, con lo sguardo fisso al mio sogno. Un sogno che si trasforma di anno in anno, ma rimane sempre a due ruote.
Perché se è vero che le persone non cambiano ma si rivelano, quella ragazzina con la testa a posto e la voglia di libertà, ha ancora tanti traguardi da raggiungere. Tanti luoghi in cui vuole arrivare. Forse non li conosce ancora tutti, ma sa che li raggiungerà sui pedali. Con la sua fedele compagna. Nella buona e nella cattiva sorte.
(parole di carta sulla rivista Polvere)
La cosa più importante Giò, è che tu hai imparato dal tuo limite. Hai cambiato la prospettiva. Avresti potuto crogiolarti nei tuoi problemi e invece hai trovato nuovi stimoli. Saresti stata la stessa donna se non avessi dovuto affrontare la fatica, il dolore e la pazienza? Non credo. Ora per quel poco che conosco, vedo una donna matura, forte e generosa.
Con questo non affermo che la sofferenza sia necessaria, ma può essere trasformata in un opportunità, e tu ne sei un esempio. Un abbraccio.
Il limite e la sofferenza sono una grande opportunità. Grazie Natascia. Un grande abbraccio!