Ho visto “Sulla mia pelle”, il film che racconta gli ultimi 7 giorni di vita di Stefano Cucchi, l’ho visto dopo essere stata al “Family and Friends Day” dell’azienda in cui lavoro, Webranking.
A lati opposti delle emozioni, questi due momenti apparentemente così diversi hanno incastonato dentro di me due scene. Due giovani ragazzi, tutta la vita davanti e i loro genitori alle spalle.
Ero a bordo piscina alla festa aziendale. Il nostro moderno edificio di legno brulicava di gente, di sorrisi e di un viavai emozionato tra le scrivanie. C’erano amici, figli… ma quest’anno, non so perché, ho notato soprattutto i genitori. I genitori dei ragazzi con cui lavoro ogni giorno. Questi ragazzi sono la mia squadra, il team con cui gestisco i clienti, ma un po’ per ruolo, un po’ per indole, un po’ per età sento una sorta di responsabilità nei loro confronti. Mi sento un po’ mamma, un po’ zia, un po’ allenatore. Gli voglio quel bene lì insomma.
Non ho potuto fare a meno di notare il padre e la madre di Marco, uno di quelli con cui lavoro spesso: un ragazzone bravo e semplice, dotato e umile. Viene dall’Abruzzo. Marco si occupa di Seo, non so se ha mai provato a spiegare ai suoi cosa fa esattamente. Non so se loro lo hanno davvero compreso. Il padre aveva un’aria smarrita ma incredibilmente fiera nel suo completo scuro e la madre, con la piega incastonata da una bella camicia a fiori, sembrava uscita da un film in bianco e nero, un po’ spaesata ma composta, felice e confusa, come se fosse sul ponte di un transatlantico che sta per sbarcare in America.
Li guardavo e ho sentito il bisogno di fare una cosa da vecchia prof, mi sono avvicinata e gli ho detto che devono essere orgogliosi del loro Marco, perché è un ragazzo speciale. Ho pensato che certamente questi genitori lo avevano aiutato, ma che Marco si era fatto con le sue mani. Aveva fatto un salto, era andato oltre ciò che gli era stato passato. Aveva preso quella fierezza, quella schiettezza, quel senso del dovere di altri tempi e ne aveva fatto tesoro. Aveva spiccato il volo.
Poche ore dopo ho visto gli ultimi giorni di Stefano Cucchi… Ho visto un ragazzo di quelli fragili, di quelli che ti fanno pena e rabbia insieme. A cui vorresti urlare in faccia e poi abbracciarlo strettissimo. Ho visto la vita quando diventa un paradosso, il suo dolore e la sua incapacità di gestirlo.
Questa è la cosa che mi ha schiantato, il fatto che non riuscisse ad uscire dal dramma. Da un dramma palese. Come le sabbie mobili: dallo spaccio dopo la comunità al fermo di poche ore che diventa un arresto, dalle percosse non denunciate ad un corpo che giorno dopo giorno si consuma. Un uomo che si lascia morire. Un uomo lasciato morire. Stefano era un urlo, un urlo spacca cuore, e attorno solo sordi che quell’urlo non lo sentivano.
E pensavo che alla fine possiamo salvarci solo da soli. Ma se non lo facciamo la colpa non è solo nostra. E pensavo che è triste. Infinitamente triste.
Oggi mentre scrivo penso che non dovrebbe essere possibile vedere cose maestose e tacere. Che dovremmo avere il coraggio di urlare sempre la bellezza e il dramma. E che nel mondo è pieno di Marco che fanno un salto e di Stefano che cadono. Ma soprattutto è pieno di gente intorno che tace. Gente che non guarda, non vede, non ascolta.
“Quando smetterete di cadere dalle scale?” chiede un secondino a Stefano.
“Quando le scale smetteranno di picchiarci” risponde lui.
“Quando ricominceremo ad urlare insieme” credo io.
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