“Non esiste buono o cattivo tempo, ma buono o cattivo equipaggiamento.”
A volte penso che sia peccato per me dire che sono invalida. In fondo ho tutti gli arti al loro posto e più o meno nel vigore delle loro forze. Posso guardare ogni giorno i miei figli crescere, posso ascoltare la mia canzona preferita alla radio, posso passeggiare in riva al mare e abbracciare forte chi amo.
Eppure tutto questo, il blog, il triathlon, il primo pensiero la mattina, nasce da lì. Da quel 46% in meno che mi ha cambiato la vita.
Tecnicamente dal 2008 ho 12 vertebre bloccate con due barre di titanio e una ventina di viti e bulloni. Significa che la mia schiena invece di essere mobile e flessibile come la vostra rimane rigida. Significa che se subisco un incidente ho più probabilità di voi di rimanerci sotto (probabilmente sapete che mentre l’osso è per sua natura parzialmente flessibile, il metallo di cui sono fatte placche e protesi ovviamente non lo è). Significa che sono uscita dall’ospedale convinta che non avrei mai più preso in braccio mio figlio di un anno e mai portato la spesa a casa dal supermercato.
Essere invalida significa anche scoprire che il cuore e la testa ti possono portare dove il corpo non sembra potere.
Dal quel giorno in cui mi sono svegliata dopo la prima operazione con l’unica certezza di muovere ancora mani e piedi sono passati 10 anni e un secondo intervento, ma oggi prendo in braccio mio figlio (che ora ha 11 anni) tutte le mattine per farlo scendere dal letto a castello (è un gioco tra noi e un bel modo per iniziare la giornata), porto la spesa per 5 persone facendo due rampe di scale e faccio triathlon.
Sono un fenomeno? Neanche un po’! Anzi ho un po’ di pudore nel raccontare ciò che sono, perché mi considero né più né meno di una persona qualunque. Con limiti e capacità. Forza e debolezze. Casini infiniti e qualche certezza.
Ho imparato però che l’invalidità è uno stato mentale e per questo può appartenere a chiunque. E come ogni cosa che ci viene assegnata dalla vita ne possiamo fare ciò che vogliamo. Sta noi scegliere se farne un alibi o un motivo di riscatto.
Credo di aver scelto la seconda via. Ricominciare a camminare mi ha fatto venire per la prima volta il desiderio di correre (io che ho sempre odiato farlo), la riabilitazione in acqua quello di tornare a nuotare (io che ho sempre nuotato contro voglia quando mi obbligavano da bambina), le ore sulla cyclette la voglia di percorrere tanta strada.
Probabilmente mentre la vita toglie capacità fisiche, compensa donandoci una forza mentale impensabile fino a poco prima. Ciò che ci accade, la parte di destino che ci viene assegnata, è come un seme, noi il terreno su cui germoglia. Non ho ancora capito se le difficoltà, come l’allenamento, rivelino il carattere. Non so se lo cambino o lo forgino. So che oggi quando penso che un giorno potrei finire in carrozzina (che per me è un finale abbastanza probabile) penso che si tratterebbe di cambiare categoria per le mie gare, di cambiare casa (quella di oggi ha troppe scale) e forse imparare a guardare il mondo da un’altra altezza. E penso che finalmente qualcuno si accorgerebbe che sono invalida! 🙂
Insomma… una rivoluzione copernicana dello spirito, che sono grata di dovere al mio 46percento che non funziona più!